Franco Pedrina

Stefano Crespi

Perdura la luce come una voce.
In queste sale dove ha incominciato a esporre nel 1968 (accompagnato da un testo di Marco Valsecchi), Franco Pedrina presenta in una mostra personale le opere degli ultimi anni. Accanto a una sequenza di quadri nuovi (interni nello studio), figurano nella mostra i suoi temi ricorrenti di paesaggi, ceppi, alberi forme di natura. Si ricompone il ritratto di una identità complessiva. Ogni approccio di lettura è il tentativo di chiarire, sia pure parzialmente, le ascendenze, la qualità di accento personale, la definizione di una scrittura, il relazionarsi di sottofondi psicologici.
Nella visita alla casa e allo studio del pittore era difficile ricavare un suggerimento, un’esplicita modalità interpretativa. Ma tutto era un richiamo indiretto al vissuto, al senso di una pittura. A cominciare dalla sua stessa figura: con un che di connaturata gentilezza, e la difesa quasi di una lieve aggressività. Il suo riaffermare, al di là di ogni tesi argomentativa, una totalità di sentire e quindi di pittura era un’idea apparentemente semplice quanto carica di responsabilità.
Nella “città” metafora dei linguaggi, dell’accadere, delle separatezze, lo spazio luminoso dello studio, l’atto amoroso di volgere rivolgere le tele erano forse una conferma di ciò che in alcuni passi suggestivi della recente critica francese viene chiamato il vero luogo. Non una rappresentazione concettuale del mondo entro cui si possa esistere dimenticando la finitezza, la dimensione del tempo. Il vero luogo restituisce un sentimento straordinario dell’esistenza attraversato dalla luce, dall’inquietudine, dal respiro della vita: da tanto enigma in tanta evidenza.
In questo luogo possono convivere, fuori dall’ossequio storicistico, stimoli di opposte emozioni. Possono diventare unità di immagine la memoria irriflessa di un proprio interiore e quasi immutabile paesaggio veneto e il mutevole confronto con i dati, la cultura, il fuori di sé, una più vasta scena europea.
Gli archetipi della figurazione veneta (basti pensare alle bellissime pagine di Roberto Longhi) si iscrivono in una “lussuosa mestizia”, in quell’accordo corale che intride i sensi, il trascorrere del tempo. Questo portato viene assunto dal pittore in una luce fredda. Non una luce lirica, di favola naturalistica. Le cose, le figure non vivono la fugacità dell’”impressione”; non vivono la tristezza o l’incanto dell’attimo. La pittura è tesa, rastremata, la materia si dirada, tutto si incrina, si urta si involve in un andamento curvilineo che non è mai uguale a sé stesso. Non vengono evasi i limiti dell’ esistenza, ma tutto si carica di un’ossessione, di un’invisibile malattia tanto più sentita quanto meno esibita. Ci sono equivalenti letterari che, in un’identità d’orizzonte possono suggerire la sottigliezza malata di questa pittura, i suoi acri splendori. Proviamo ad aprire le prose venete di Andrea Zanzotto. Nell’estrema limpidezza, le cose, la loro dimessa ritualità portano con sé una radice infinita, la tenerezza di un ambiguo alibi. Non so se in letteratura sia stato detto più acutamente lo strazio immoto di una luce, senza tempo, senza memoria, senza storia: «Perduta ogni forza d’invasione, la luce acquistava un enigmatico ed elegiaco pudore, perdurava come una povera voce, comunicante e volta solo a se stessa».
Gli scritti degli artisti, nel rifiutare passaggi e astrazioni, hanno il fascino della percezione diretta: la scrittura diventa una sorta di materia prima. Sono sintomatiche alcune brevi prose di Franco Pedrina, quasi primordiali mitologie della propria poetica. Evocazioni ariose dei nuclei tematici della pittura: la stagione delle angurie, la vigna, il ceppo. Sono le cose che entrano nello spazio del quadro: «Forse questo non mi è ancora riuscito con i nudi. Ho provato ad inserire questi corpi di donna nel verde misterioso di una pianta, come sognavo di scoprirli a quindici anni, quando avrei percorso anche cento chilometri a piedi, pur che accadesse. Ho provato a dipingerlo da solo, come un ceppo,o come se tornasse a terra. Ho provato a sfarlo con la luce, a scavarlo come un recipiente nel quale immergersi e riposare; mi restano sempre cariche di una storia che non è mia». Viene adombrato nella insoddisfazione espressiva del nudo un problema ben più centrale della sua interiorità poetica: l’inafferrabilità , la dilemmaticità tra insidia di sensi e irraggiungibile assolutezza, la concitazione, l’eros, il colore psicologico che investe gli oggetti della pittura. La vita che preme con densa malinconia è imprendibile. Perdura la luce come il deserto richiamo di una voce.
Più che in un rapporto di natura, alcuni temi sembrano necessitati in una sorta di cruda dolcezza che dà aria, brivido, colore interno, intonazione di sensi. Emblematico è il motivo delle angurie («toccarle, prenderle, aprirle sdraiate com’erano tra le foglie»). Sono stati messi in luce alcuni riferimenti nella storia dell’arte dove l’insistenza del motivo viene a rappresentare una simbolizazzione inconscia del desiderio. Nel motivo partecipa la forma, la materia, il deposito d’anima. Si pensi alla forza d’attrazione complessa, oscura, mutevole delle mele di Cezanne. Significativamente nelle angurie, ma anche in altre variazioni di ceppi, paesaggi, nature morte, la pittura è ferita, respiro. Un’eccitazione amorosa nella identica rapina delle cose, del tempo.
C’è poi un colore che può essere assunto in una ricchezza di valenze, ed è un segnale persistente in tutta l’opera del pittore: il viola. Colore antinaturalistico, associabile alla preziosità della decadenza europea. No è tono; introduce e via via sottolinea la vanità di una sconvolta bellezza, certo anche l’insidia del tramonto, la mesta desolazione dei pasoliniani vespri dimenticati.
In una interna lettura, si può già intravedere quel timbro di non formale aristocrazia che è l’intimo colloquio con la cultura europea. In particolare con l’atmosfera e una certa sintassi che hanno segnato la lezione di Graham Sutherland. In un’ampia monografia di Francesco Arcangeli, un’indicazione autorevole riconosce il maestro inglese totalmente immune “dall’anarchia informale”: trattandosi di un’esperienza artistica che si realizzò come conquista della mente oltre che sollecitazione dei sensi.
Per un’urgenza di sincerità che spinge a un’equazione fra connotati esistenziali e opera, per talune domande del profondo, ci potevano essere i presupposti per una avventura informale. L’aver evitato l’affondo nell’emozionante, l’avere vitato la tentazione di un naturalismo edonistico dà al percorso di questo artista una tensione etica. Ogni opera, ogni vita, ogni immagine della natura non sono che il linguaggio di una verità che ci supera. Che altro è il tendere a una forma se non la presa di coscienza “del proprio non dimorare sulla terra”? In Sutherland si accentua la severa perentorietà del segno. Qui gli andamenti organici non si irrigidiscono nel procedimento analitico, o nelle strutture di un vocabolario naturale, trascinati come sono da un  vento di pietà.
Certo oggi l’esperienza umana incontra una storia inenarrabile che è la cultura delle certezze: che è la fine di tutti i racconti, che ignora gli alberi, il teatro dell’esistenza. È possibile ritrovare la parola autentica e vissuta fuori dagli accumuli linguistici? Franco Pedrina ha dipinto una sequenza di studi di interno. Nel definitivo indebolimento dei “generi” (ha scritto André Chastel), il soggetto per il pittore è diventato il suo ambiente immediato, lo studio, il cavalletto; e più che le cose dipinte, la cadenza, la durata, la misura stessa del dipingere. Questi interni hanno la disposizione frontale, una remotezza d’affresco, l’insecchirsi dei bianchi. La coscienza che la natura è diventata una sorta di universo artificiale. Citazioni, memorie inaridite: raggrumata resiste la luce.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Bergamini, Milano, marzo-aprile 1991)

 

 

 


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